Quando, in anteprima ad un evento riservato ai librai mi hanno parlato di Mio fratello di Daniel Pennac, pubblicato da Feltrinelli, ammetto che ho un po’ alzato gli occhi al cielo. Pennac che scrive un ricordo sul fratello morto non mi sembrava il libro più allegro, più entusiasmante, più appassionante e vendibile dell’anno.
Questo libro sottile che si legge in un pomeriggio racchiude in sé tre storie: una storia d’amore fraterno, una storia d’amore per il teatro, e la storia di un grande autore americano.
Bernard, il fratello di Daniel Pennac, muore nel 2007 per una operazione alla prostata finita male. L’elaborazione del lutto varia da persona a persona. Nonostante siano passati molti anni l’assenza del fratello, così importante nella sua vita, è ancora lacerante e si traduce in momenti di grande struggimento e di grande dolore, ma sempre in maniera molto composta.
Non so niente di mio fratello morto, se non che gli ho voluto bene. Non c’è nessuno al mondo che mi manchi come mi manca lui e tuttavia non so chi ho perso. Ho perso la gratuità del suo affetto, il piacere della sua compagnia, la profondità del suo silenzio, il distacco del suo humour, la delicatezza della sua attenzione, la sua serenità di giudizio, la sua intelligenza delle situazioni, ho perso la pace. Ho perso quel po’ di dolcezza che restava nel mondo. Ma chi ho perso?
È un racconto sicuramente molto intimo, seppure filtrato anche dalla grande riservatezza e discrezione che era stato il tratto distintivo dei due fratelli anche durante la vita.
La confidenza, insomma, non era nelle nostre abitudini. Eravamo gli ultimi rappresentanti del mondo del silenzio: due pesci intenti a giocare a scacchi per il puro gusto di non battere l’altro. Intorno a noi e nel corso delle nostre vite la parola si liberava, crollavano le dighe e l’intimità dilagava fuori dalle famiglie, dalle coppie, dalle amicizie, dalle aziende, dai partiti politici, invadeva i giornali, gli schermi, le piazze e la rete. La collisione fra la sfera privata e quella pubblica finì per produrre un tale sconquasso generale che ai più alti livelli dello stato si udì persino un presidente della Repubblica dichiarare pubblicamente che, con la Taldeitali, “era una cosa seria”. Noi invece portavamo a spasso i cani in silenzio e quando in montagna ci perdevamo di vista, ci ritrovavamo fischiando con le dita.
Ma non bisogna pensare a Mio fratello di Daniel Pennac come un racconto permeato sempre di muto dolore, anzi! Bernard, nei ricordi di Daniel, è un uomo simpatico e divertente, che prende la vita con svagata leggerezza; un uomo che ha la battuta sempre pronta e un umorismo simile a quello del fratello. Ai ricordi permeati di profonda malinconia si alternano quelli più allegri e divertenti, come capita a tutti ripensando alle persone care e scomparse
Bernard e io siamo in auto, nella Due Cavalli di famiglia, nella via del paese. Guida lui. Abbiamo rispettivamente venti e quindici anni. Una Mercedes con targa straniera, ferma senza nessuno al volante, ci blocca la strada. Parcheggiata lì, bel bella, in mezzo alla strada. Entro dal panettiere lì vicino per chiedere ad Albertine, la panettiera, se per caso sa chi sia il proprietario. Un bestione in costume da bagno si palesa come il contravventore da noi cercato. È l’inizio dell’estate e costui è una massa di carne rosa e fumante, la nuca e le spalle rosse come un peperone. Fuori, intanto, si è formata una fila di auto. Parte il concerto dei clacson. Segnalo al colosso l’esistenza di un parcheggio a venti metri da lì. Inaspettatamente, lui va su tutte le furie e con l’irruenza di un vulcano grida che noialtri francesi non abbiamo alcun senso dell’ospitalità, siamo di un’antipatia che non si può neanche immaginare, ma sempre ben contenti di intascarci i suoi soldi quando viene a passare le vacanze da noi! Silenzio atterrito dei clienti, che se ne stanno tutti sulle spine. L’orco nudo occupa da solo metà del negozio. “O mi sbaglio? Eh? Non è così? Esagero?” E a quel punto si sente la voce di mio fratello, un po’ annoiata, nel tintinnio della tenda di perline dove ha infilato il viso magro: “Ha ragione, siamo tremendamente interessati ai suoi soldi. Quindi, sia gentile, l’anno prossimo rimanga a casa sua e ci spedisca un assegno”.
Non conosco molti libri che parlino così bene dell’affetto tra fratello e sorella, tra fratello e fratello: mi viene in mente ad esempio Lessico familiare della Ginzburg, ad esempio.
Uno dei modi con cui Daniel Pennac affronta il lutto per la morte di Bernard è quello di portare in giro per i teatri una sua personale riduzione di Bartleby lo scrivano, di Herman Melville. Questo perché un giorno, all’improvviso, sedici mesi dopo la morte del fratello, ricordò un episodio.
Verso la fine della vita ogni tanto faceva dei biscotti, quei biscotti del Sud, piccoli blocchetti di cemento cosparsi di mandorle che, dalla Provenza all’Italia meridionale, cambiano nome a seconda della zona ma sono ovunque un vanto locale. A volte, per ammorbidirli, si inzuppano nel vino del posto. Un giorno ci mise dello zenzero. Porgendomi il cestino, disse: “Gradisci un Bartleby?”.
Il collegamento con lo zenzero è dovuto al fatto che Bartleby, nel racconto, sembra si nutra solo di biscotti allo zenzero. Bartleby lo scrivano è un’opera diciamo minore di Melville: Pennac ne è conscio.
La maggior parte degli spettatori non aveva letto Bartleby lo scrivano. Molti ignoravano persino l’esistenza di questo racconto di Herman Melville. Conoscevano Moby Dick, la mitica balena, dal cinema o per sentito dire, il nome di Melville qualcosa gli diceva, ma non sapevano niente di Bartleby. (Lo pronunciavano Bartlebai). Per me fu una sorpresa. I testi che frequentiamo assiduamente – non ricordo più quando è stata la prima volta in cui Bernard mi ha parlato di Bartleby – immaginiamo che li conoscano tutti. E invece non è così.
Bartleby lo scrivano è una storia molto strana: racconta di uno scrivano che piano piano inizia a rispondere “Preferirei di no” a tutto: al lavoro, al licenziamento, a lasciare lo studio in cui non lavora più, fino alla drammatica conclusione. Scritta metà dell’Ottocento, per alcuni anticipa il teatro dell’assurdo.
In primo luogo Bartleby per me era una compagnia che suppliva – inspiegabilmente, in misura assai lieve, come un’allusione – all’assenza di mio fratello, in secondo luogo provavo un enorme piacere a lavorare la pasta della frase di Melville. Melville è come il pane. È nutriente senza essere pesante. È pieno di senso e di silenzio. A volte Melville è di una lentezza lavica. È lento a riempire gli anfratti, ma poi li riempie tutti. Anche gli interstizi. Ero pieno.
Ecco perchè Mio fratello di Daniel Pennac sono in realtà tre storie in una. Si alternano ai ricordi del fratello quella, traboccante d’amore, sulla rappresentazione teatrale e sul mondo del teatro, e gli stralci di Bartleby lo scrivano che Pennac ha portato in scena, trasformandolo in un monologo.
Lo fissai. Il suo volto mostrava una magrezza tranquilla; il suo occhio grigio una vaga placidezza. Se avessi scorto nei suoi modi la benché minima traccia di fastidio , di collera, di impazienza o di impertinenza; in altri termini, se avessi riconosciuto in lui qualcosa di comunemente umano, l’avrei senz’altro cacciato con violenza dal mio studio. Ma, nel suo caso, era come mettere alla porta il mio pallido busto in gesso di Cicerone.
Pennac si appassiona profondamente nel raccontare della sua tourneè con Bartleby, di come mano mano il pubblico reagisce, dalle iniziali risate, all’incompresione, fino allo sgomento stupore del finale. E con lo stesso entusiasmo racconta anche aspetti più tecnici, quali la scelta della traduzione o l’allestimento della scena, che a mano a mano diventa sempre più essenziale, proprio come l’inspiegabile Bartleby che col tempo continua a rifiutare qualsiasi cosa e fino a scomparire, per così dire.
Per chi, poi, non ha mai letto quest’opera, inserirne parti permette di farsene un’idea abbastanza fedele, trovandosi a leggerla pur non nella sua interezza, e mediata dalle scelte sul testo di Pennac.
E se la narrazione della vita del fratello è colma di amore e malinconia, ripercorrendo la nascita e la messa in atto del suo monologo Pennac ci trasmette il suo grande amore per il teatro.
In teatro, la sala è la cassa di risonanza della scena. Attori e spettatori recitano gli uni con gli altri (o contro gli altri, a seconda dei casi). Non è semplice diventare uno spettatore. Lasciare andare in così poco tempo una professione, una famiglia, una giornata di lavoro, una città, una vita, un bagaglio di punti di riferimento, di consuetudini e di norme… I cappotti che non si sa dove posare, il fruscio dei giornali ripiegati alla bell’e meglio, i programmi consultati ad alta voce, le chiacchiere che non finiscono mai, i cellulari spenti sempre fuori tempo massimo, i ritardatari impegolati nelle loro scuse, le poltrone che sbattono, i corpi che si lasciano cadere, i cigolii di assestamento, tutto il trambusto del pubblico che si sistema in sala è la lenta sottomissione degli spettatori alle esigenze dello spettacolo. Sembra quasi la cacofonia degli strumenti nella buca dell’orchestra prima dell’ingresso del direttore. Quando finalmente la luce in sala si abbassa e poi si spegne, e si pensa di essersi accordati al silenzio di tutti, ecco che allora subentrano i corpi. D’inverno sono gli starnuti e la tosse, d’estate è il fastidio per il caldo, cui si aggiungono, tutto l’anno, i cellulari non spenti e – forse più fastidioso ancora – il concerto indignato delle proteste. Far sì che le persone tacciano è una cosa da nulla. Il più delle volte è sufficiente la presenza degli attori. Ma far tacere una tosse, conquistare i corpi al punto che le poltrone non scricchiolino più è il miracolo del testo. Da questo punto di vista, Melville si rivelò un ottimo medico.
Con grande passione Pennac racconta dell’opera teatrale, del suo rapporto come attore con la recitazione e la lettura ad alta voce di Melville, ma anche con il pubblico che lo aspetta all’uscita dal teatro per dare la propria interpretazione delle azioni di Bartleby.
Tre motivi per leggere Mio fratello di Daniel Pennac?
Una bellissima e struggente, ma non triste, melensa o patetica storia d’amore
per un fratello, una persona cara che non c’è più. Ma che nonostante la morte continua ad essere presente nella vita di chi gli ha voluto bene.
Scoprire Bartleby lo scrivano, un testo classico ma poco noto di Melville, per restare ammutoliti davanti alla sua “assurdità”.
Leggere un testo dove è palpabile l’amore per il teatro, per la lettura e per la condivisione con gli altri. Quale in effetti è il teatro.