Il grande gioco di Peter Hopkirk pubblicato da Adelphi è stata per me una rilettura e una riscoperta che mi hanno riportato alla mente quello che affermava Roberto Calasso, editore di Adelphi recentemente mancato:
Voleva pubblicare libri “eterni”, non legati al contingente e all’hic et nunc, che continuassero a parlare pur con lo scorrere del tempo.
Il grande gioco è stato scritto nel 1990: 21 anni fa. È arrivato in Italia nel 2004: 17 anni fa.
Oggi, nel 2021, dialoga con noi alla perfezione pur -e soprattutto, mi verrebbe da dire- parlando di cose successe duecento, centocinquanta e cento anni fa.
Questo perchè “grande gioco” è l’espressione creata da un avventuriero, geografo, spia e militare – i confini sono molto incerti – inglese nella prima metà dell’Ottocento per raccontare quello che stava succedendo tra Russia e Inghilterra tra Afghanistan e Caucaso, compresi quegli stati come Turkmenistan o Kirghisistan che io, ma penso tantissimi altri, magari avrei difficoltà a trovare sulla carta geografica.
In questo Grande Gioco per 150 anni le potenze mondiali di allora hanno lottato, in una sorta di partita a scacchi, intorno all’Afghanistan per dominare la zona.
È una storia di trattati e vie commerciali da ottenere, di influenze politiche e di guerre più o meno dichiarate resa poi celebre da Kipling nel suo romanzo Kim.
Aggiungo che per questo saggio storico estremamente rigoroso bisogna per usare un’espressione bruttissima e stereotipata che in questo caso è molto calzante: “si legge come un romanzo”.
Il grande gioco di Peter Hopkirk pubblicato da Adelph è infatti un romanzo di spie, di soldati, di gente che fai doppio, il triplo e il quadruplo gioco.
Se vi piace Le Carré, Forsyth o Graham Greene allora questa è un’opera che vi appassionerà perché è una storia di spie, di politici intriganti, di avventurieri senza scrupoli e anche di esploratori.
Per dare idea della scrittura di questo saggio leggo il racconto dell’assalto alla legazione russa di Teheran nel 1829. E ogni riferimento alla Theran del 1979 o alla Bengasi nel 2012 viene naturale:
I mullah diedero ordine di chiudere i bazar e radunare la popolazione nelle moschee, esortandola a marciare contro la legazione russa e impadronirsi dei transfughi cui essa dava asilo. In breve una turba urlante di migliaia di persone si ammassò intorno all’edificio. La folla aumentava di minuto in minuto, assetata di sangue, e Griboedov comprese che il piccolo corpo di guardia cosacco non avrebbe potuto resisterle. […]
Incitata dai mullah, la folla prese d’assalto il palazzo. Per più di un’ora i cosacchi cercarono di contenere l’assalto, ma, troppo inferiori di numero, dovettero man mano arretrare, nel cortile e poi di stanza in stanza. […] L’ultima resistenza ebbe luogo nello studio di Griboedov, dove lui e alcuni cosacchi tennero duro per qualche tempo. Ma gli assalitori erano frattanto saliti sul tetto, e, tolte le tegole, irruppero dal soffitto. Griboedov, con la spada sempre in pugno, fu infine sopraffatto e massacrato, e il suo corpo gettato in strada dalla finestra. Qui un venditore ambulante di kebab gli, mozzò la testa e la esibì, occhiali e tutto, sul suo banchetto, per la delizia della folla. Uno scempio anche più indicibile lo subì il resto del suo corpo, che da ultimo finì su un mucchio di rifiuti, e venne in seguito identificato grazie a un mignolo deforme, frutto di un duello giovanile.
In tutto questo frangente non si era visto segno di truppe mandate a disperdere la folla o a soccorrere Griboedov e i suoi compagni.
Il grande gioco di Peter Hopkirk pubblicato da Adelphi è una storia di terribili crudeltà – tutte vere perché appunto è un saggio storico – ma anche di ingegnose invenzioni.
Nel capitolo sulla Via della Seta, altro tema di stretta attualità, scopriamo che gli inglesi crearono il corpo dei pandit. Erano indiani travestiti da bonzi buddisti impiegati nello spionaggio. Nascondevano nel rotolo delle preghiere una bussola, utilizzavano un rosario della preghiera modificato per tenere traccia delle distanze che percorrevano e in questa maniera riuscivano a tracciare le distanze percorse e a mappare i valichi e le strade.
Quando dicevo che tutte queste vicende parlano al mondo d’oggi e che Il grande gioco di Peter Hopkirk pubblicato da Adelphi è di una contemporaneità incredibile, pensavo anche ad un particolare giudizio che diede Arthur Conolly.
Conolly fu coluì che coniò l’espressione “il grande gioco” e per i suoi superiori del Foreign Office redasse una chiara nota scritta su una possibile invasione dell’Afghanistan
Restava comunque un grosso ostacolo, tale da rendere alquanto dubbie le speranze di vittoria. Con l’una e con l’altra, l’invasore avrebbe dovuto attraversare l’Afghanistan. E gli afgani avevano «poco da guadagnare, e molto da temere, da un ingresso dei russi nel loro paese». Erano inoltre ostili ai limiti del fanatismo verso i persiani, il cui appoggio era essenziale per i russi. «Se gli afgani, come nazione, si opponessero con risolutezza agli invasori, le difficoltà della marcia sarebbero pressoché insormontabili». Avrebbero combattuto fino all’ultima goccia di sangue, tormentando di continuo le colonne russe dalle loro roccaforti montane, distruggendo le vettovaglie e tagliando le linee di comunicazione e di ritirata dell’invasore.
Viene da pensare che queste vicende del 1830 e descritte da Peter Hopkirk nel 1990 non sono state lette abbastanza e comprese anche nei circoli politici.
Per continuare a dimostrare la contemporaneità di questo libro, noi sappiamo che con il 2001 e la guerra in Afghanistan l’espressione “esportare la democrazia” è diventata nota tutti.
Cosa succedeva centocinquanta anni prima?
Nel dicembre 1864 il memorandum fu diramato, tramite le ambasciate zariste, ai maggiori paesi europei.
«La posizione della Russia in Asia centrale» dichiarava il celebre documento «è quella di tutti gli Stati civilizzati entrati in contatto con popolazioni nomadi semiselvagge prive di una stabile organizzazione sociale. In questi casi accade sempre che lo Stato più civilizzato si veda costretto, nell’interesse della sicurezza delle proprie frontiere e relazioni commerciali, a esercitare una certa qual supremazia su quei popoli che per le loro caratteristiche di turbolenza e riottosità si configurano come vicini indesiderabili». A loro volta, le regioni pacificate andavano protette dai saccheggi perpetrati dalle tribù senza legge che vi gravitavano attorno; e così via.
Il governo russo perciò doveva scegliere: portare la civiltà a popolazioni sofferenti sotto un dominio barbaro, o abbandonare le proprie frontiere all’anarchia e a sanguinosi disordini. «Tale è stato il destino di ogni paese che si sia trovato in una situazione analoga» scriveva Gorčakov.
La Gran Bretagna e le altre potenze coloniali erano state «irrimediabilmente costrette, non tanto dall’ambizione quanto da imperiosa necessità, a codesta marcia in avanti». La difficoltà maggiore, concludeva, stava nel decidere dove fermarsi.
Mi sembra proprio un discorso che abbiamo già sentito in tempi recenti.
Questo perchè Il grande gioco di Peter Hopkirk pubblicato da Adelphi non è solo un libro pieno di avventure, di colpi di scena, di guerre e di eserciti che non battono ciglio a fare 1.500 chilometri in poco più di un mese in strade nemmeno tracciate.
È un libro che parla agli uomini del 1990 come a quelli del 2021, e per dimostrare ulteriormente questo basti leggere la dichiarazione del generale Elphinstone nel 1842, quando si accinse a lasciare Kabul.
Sia detto che questo generale era un babbeo, un personaggio perfetto per un romanzo di Graham Greene, un uomo col potere ma stupido che si fece ingannare più e più volte dal crudele emiro dell’Afghanistan
Dost Mohammed fino allo sterminio completo dei suoi sedicimila inglesi – uomini, donne, bambini, servitori e indiani -.
Nal lasciare Kabul fece questo proclama:
«Poiché risulta dai fatti recenti che la permanenza dell’esercito britannico in Afghanistan a sostegno di Shah Shujah è sgradita alla grande maggioranza della popolazione afgana, e poiché il governo britannico nel mandare truppe in questo paese non aveva altro scopo che l’integrità, la serenità e il benessere degli afgani, esso governo non desidera prolungare tale permanenza in quanto contraria allo scopo suddetto».
Gli inglesi perciò avrebbero ritirato tutte le truppe, a patto che gli afgani garantissero loro un passaggio sicuro fino alla frontiera.
Anche questa mi sembra una dichiarazione molto simile a quelle che abbiamo sentito negli ultimi giorni.
Tre motivi per leggere Il grande gioco di Peter Hopkirk pubblicato da Adelphi?
Il primo perché è un saggio con il respiro di un grandissimo romanzo d’avventura, in un certo qual modo figlio dei romanzi di Kipling.
Il secondo perché parla di cose lontanissime, degli Scià di Persia e della regina Vittoria imperatrice delle Indie, eppure è terribilmente e sinistramente contemporaneo.
Il terzo e ultimo motivo è se vogliamo un po’ più filosofico.
Se anche voi credete che “La storia non è magistra / di niente che ci riguardi” per dirla con Montale, allora questo è libro un memento perfetto sulla vanità delle azioni e dei desideri umani.
Anzi, se si potesse mettere una fascetta su questo libro secondo me sarebbe da usare la citazione più famosa quella di un altro libro immortale quale il Qoelet o Ecclesiaste: Nihil sub sole novi, non c’è niente di nuovo sotto il sole